Numero 20
Da Scampia a Cannes: Matteo Garrone e la sua Gomorra
Che Matteo Garrone, romano, classe 1968, fosse un regista promettente e coraggioso lo si era già intuito: i suoi due ultimi film, “L’imbalsamatore” e “Primo amore”, ne hanno delineato stile e poetica in maniera inequivocabile, rendendolo una delle vere speranze del giovane cinema italiano. Entrambe le pellicole raccontano storie border-line di ossessioni ed emarginazione, entrambe rappresentano le contorte logiche di valutazione, inclusione ed esclusione della società contemporanea in maniera tagliente, intelligente, mai banale. L’individualità dei personaggi, soprattutto di quelli più ambigui e discutibili, pervade la narrazione, imponendoci il confronto diretto con mentalità sulle quali Garrone non esprime mai un giudizio aperto.
Così il dramma dell’anoressia ci viene raccontato in “Primo amore” attraverso la storia di una coppia e dell’estremo tentativo di adattarsi l’uno all’altro, senza moralismi né concessioni al melodrammatico, in maniera talmente asciutta da costringere lo spettatore a cercare in sé la scintilla del disagio e confrontarcisi, indipendentemente dalle proprie esperienze. Dalle proiezioni dei film di Garrone ci si rialza sempre un po’ a disagio, tesi, dubbiosi; dai volti degli attori iperrealistici e pasoliniani alla freddezza razionale della regia, che li mostra attraverso inquadrature atipiche e lievemente irreali, fino ad una luce smorzata, eppure quasi solida nei chiaro-scuri, lo strano sguardo di Garrone sul mondo si lega ad una indubbia capacità di raccontare e gestire i tempi filmici, permettendo allo spettatore di calarsi completamente nel film.
Queste sono le caratteristiche che Matteo Garrone porta in dote all’incontro con un altro giovane, talentuoso e coraggioso autore italiano, Roberto Saviano, dalla cui penna ha preso vita “Gomorra” romanzo-saggio sulla vita di quanti sembrano non avere altro che la Camorra come prospettiva, tradotto in più di trenta lingue, osannato in tutto il mondo e giunto tra i best seller quasi solo per passaparola.
Garrone e Saviano asciugano il libro dalla mole di dati ed informazioni che fornisce, limitandosi a raccontare, in maniera apparentemente disconnessa, le vicende dei personaggi principali del romanzo. La complessità di un sistema interamente fondato sull’abuso e sulla connivenza viene descritta attraverso immagini complesse, in cui malavita e quotidianità familiare si dividono l’inquadratura. I volti, sempre inquadrati troppo vicino o troppo lontano, le ombre pesanti, l’utilizzo scenografico della folle architettura delle Vele di Scampia replicano, per tutto il film, l’impossibilità di cogliere un’immagine leggibile, di chiarirsi le idee, di interpretare e comprendere ciò che accade. Garrone esprime così la dolorosa incapacità di una consistente parte dell’Italia di capire l’abisso che la separa dai tanti quartieri di Napoli, Bari, Reggio, Palermo…
La vicenda si presenta come una storia corale del quartiere, dove il ragazzo ribelle si alterna con la madre disperata, il vile portasoldi cerca di sopravvivere tanto quanto il sarto sfruttato, imprigionati nelle maglie dell’illegalità; eppure ciascuno finisce per esprimere prevalentemente il proprio isolamento, sempre costretto a scegliere a chi affidare la propria vita o la propria morte, tra le due fazioni in lotta, fin dall’infanzia, tanto che l’amicizia stessa non può che soccombere, con agghiacciante naturalezza, davanti all’affiliazione.
Il tema, forte e attuale, non può lasciare indifferenti ed ha portato immediatamente sul film la stessa attenzione riservata al libro e facilmente riscontrabile nell’ultimo decennio verso il cosiddetto “teatro civile”; ne ha condiviso l’interesse anche la giuria del Festival di Cannes, consegnando a Garrone ed a Gomorra lo scorso 25 maggio il Gran Premio Speciale della Giuria.