Numero 30
Scienza e visione disincarnata
Scienza e visione disincarnata
Al termine di una lunga ed articolata riflessione sul pensiero, Cartesio (1596 - 1650) giunge a sostenere il suo più famoso enunciato: «Cogito, ergo sum». Penso, dunque sono. Il suo fine è fare appello alla ragione per fuoriuscire dall’oppressione delle superstizioni e dei pregiudizi, che si concretizzava nel dogmatismo della Chiesa Cattolica propugnatrice di una sola Verità; per chi aveva osato contraddirla pose in essere scomuniche, messe all’indice e persino pene capitali (vedi Galilei o Campanella). Cartesio è consapevole di questo, ma di fronte a tale posizione che guarda al mondo come ad una realtà immutabile (così come l’ha creata Dio) ambisce ad una riflessione filosofica libera da dogmi. Tuttavia, non ritenendo confacente a sé uno scontro con il Vaticano, propone un astuto stratagemma: il dubbio metodologico.
La sua intuizione è semplice e seducente: immaginare, attraverso ogni mezzo concettuale disponibile, tutti gli artifizi e gli inganni che i sensi possono produrre ai danni del nostro sapere. Così, ad una mente onesta non rimane che rigettare come falsa qualsiasi conoscenza messa in discussione dal dubbio. La soluzione è dubitare, dubitare di tutto.
Quante volte la nostra vista ci inganna o il nostro udito ci profila sensazioni che semplicemente immaginiamo? I nostri sensi non sono strumenti affidabili al 100%: questo basta a Cartesio per dubitare di loro. E se ciò vale per la conoscenza sensibile (cioè quella che si odora, si tocca e si vede), varrà altresì per le verità metafisiche. Il fine è fare della mente una tabula rasa, ovvero giungere alla condizione in cui la mente si libera di ogni vincolo e preconcetto: disincarnare, insomma, la mente dal corpo.
Nel suo Discorso sul Metodo spiega: «In quel, mi accorsi che […] bisognava necessariamente che io, che pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare […], giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia.» (1)
Cartesio fonda in quel momento un nuovo metodo, uno dei punti cardine dell’indagine scientifica contemporanea, ovvero conoscere il mondo per mezzo della ragione, concepita come uno strumento imparziale, distaccato e soprattutto obiettivo. Successivamente sono Positivismo e Neo-positivismo a fare propria questa concezione, ponendola come mezzo e fine della loro filosofia. Essi sostengono la piena fiducia nel metodo scientifico, unica via per permettere all’uomo di liberarsi di tutti i suoi problemi, da quelli economici a quelli sociali. Questo deve essere ciò che probabilmente provarono i sostenitori della Visione Disincarnata della scienza, che sostenne l’abbandono della soggettività e delle passioni, entrambe intese come elementi dannosi per la mente umana. Rabbia, amore, odio, curiosità: quante volte, nella vita di tutti i giorni, le emozioni interferiscono con i nostri sforzi di arrivare ad una verità che sia conoscitiva o morale?
Lo vediamo nel lavoro, nelle nostre relazioni con gli altri ed ancora con i nostri stessi processi cognitivi: l’emotività finisce per viziare inevitabilmente i risultati. Cercare di liberarsi di questi pesi gravosi, che spesso ci spingono a comportarci più come animali che come esseri umani, diviene un compito morale e, per chi persegue la scienza, diventa un obbligo metodologico: occorre sviluppare ed affidarsi ad un metodo rigoroso, non alle instabili verità proposte da visioni soggettive, come ad esempio quelle religiose, metafisiche o spirituali. Tale è tutt’oggi la Visione Disincarnata proposta da alcuni scienziati che vorrebbero scindere la conoscenza scientifica da qualsiasi altra forma di conoscenza proprio in virtù della rigorosità del loro metodo, a loro avviso unico modo per liberarsi dall’errore.
Lo scienziato diventa così l’esecutore imparziale di una metodologia che prevede tre fasi: il rilevamento di misurazioni precise, la riscrittura di dati incontrovertibili e la stesura di conclusioni oggettive. Fermiamoci un secondo e chiediamoci seriamente: una conoscenza simile è possibile? Davvero la scienza è libera da pregiudizi e dogmi? Può esistere uno scienziato del genere? O meglio ancora, è umano uno scienziato del genere? Al contrario di quanto si può pensare, la Visione Disincarnata è un valore essa stessa, un habitus, una prescrizione ed un dogma. Allo scienziato è chiaramente ordinato di seguire un metodo che deve diventare un must esso stesso, pena l’esclusione dalla comunità scientifica. Questo perché il metodo è stato investito di un alone di immortalità, è diventato esso stesso un dogma quasi religioso! La realtà è che la conoscenza scientifica vuole essere oggettiva: si presenta come libera dalle credenze personali, dai valori e dalle idee metafisiche di chi la esercita proprio perché vuole essere al di là delle umane passioni ed emozioni. In pratica, per usare le parole di Karl Popper: «La conoscenza intesa come oggettiva pretende d’essere una conoscenza senza un conoscitore.» (2)
Chi ha ideato tale metodo? È rimasto sempre lo stesso o è cambiato nel tempo? La risposta è quasi imbarazzante, tanto è banale: l’uomo ha creato tale metodo e nella storia della scienza è cambiato molte volte. Il metodo d’indagine scientifica di un biologo di 40 anni fa è totalmente differente da quello di un biologo di oggi! Questo non solo grazie alle più moderne tecnologie a disposizione, ma anche e soprattutto per una mutata visione del metodo stesso: oggi si guarda al superorganismo Gaia come ad un insieme altamente organizzato, quando, fino a qualche anno fa, si praticava uno studio parcellizzato degli esseri viventi in laboratorio, totalmente sconnessi l’uno dall’altro. Oggi gli scienziati più innovativi vi direbbero: «Studiare una pianta qualsiasi in laboratorio? Non è possibile! Un essere vivente può essere osservato solo nel suo ambiente di origine, altrimenti si perde una miriade di informazioni fondamentali per la sua comprensione!». (3)
Questo perché ogni essere vivente intesse relazioni interspecifiche e intraspecifiche, che non potevano essere osservate in un laboratorio di 40 anni fa, non perché non esistessero le tecnologie per farlo, ma perché non si concepiva una cosa del genere.
E lo stesso scienziato può essere distaccato, obiettivo, imparziale? A nostro avviso no. Una visione libera dalle radici che abbiamo (sia culturali che naturali) è una pretesa assurda. Si pensi alle estatiche descrizioni dei naturalisti dell’Ottocento di fronte alle meraviglie della Terra o alle appassionate parole di Newton nel descrivere la Legge di Gravitazione Universale!
L’emozione era una componente fondamentale in entrambi, viva e consapevole. Ancora, si rifletta su cosa effettivamente rimane della presunta imparzialità scientifica nelle isteriche reazioni di boicottaggio degli altri scienziati quando Darwin propose la Teoria dell’Evoluzione; stessa cosa accadde a Pasteur e a Lovelock. Non è certamente questa la reazione di scienziati oggettivi e distaccati alla pubblicazione di libri dissenzienti!
La realtà è che l’essere umano non può comportarsi in modo non-emotivo, esclusivamente razionale, né avere una conoscenza totalmente oggettiva.
Edward Goldsmith venti anni fa scriveva: «Coloro che sono permeati da una certa idea di scienza considerano questa insopprimibile emotività umana come un terribile difetto. […] Ma la rimozione delle emozioni umane prospettata dalla visione disincarnata spoglierebbe l’uomo delle sue espressioni più alte: della religiosità, della spiritualità, delle sue capacità di cantare, danzare, ridere e piangere, amare e odiare (insomma, tutto ciò che lo rende umano).»
Pertanto, se è vero che l’uomo può spogliarsi almeno in parte delle proprie emozioni, colui che riesce a sottrarsene totalmente perde ogni grado di empatia e cade nell’aberrazione. Si pensi ad esempio alla perfetta organizzazione nazista per l’olocausto, un progetto razionale sino alla follia; o ancora ai tentativi di spiegare il cervello umano solo in termini d’impulsi elettrici fra neuroni e secrezione di ormoni.
Ci sentiamo, dunque, di affermare che lo scienziato che pretende di sottrarsi alla sua emotività cade in errore, considerando come externalities fattori da cui egli non potrà prescindere in quanto essere umano: le sue convinzioni, le sue esperienze personali, il suo intuito o la sua stessa fisiologia. In definitiva, oltre ad un’effettiva impossibilità pratica, il presunto distacco fra conoscitore ed oggetto conosciuto è tutt’altro che imparziale ed oggettivo. Tale approccio, smerciato come asettico, maschera in realtà l’ambizione di «controllare la natura» risalente ad un’epoca in cui si riteneva che esistesse ad esclusivo vantaggio dell’uomo.
La verità è che gran parte delle cognizioni teoriche e metodi pratici che oggi utilizziamo risale a quell’idea di progresso scientifico che considera l’approccio alla conoscenza solo mentale, sebbene ciò non possa accadere perché l’emotività è parte integrante del mondo in cui viviamo.
In conclusione, forse Cartesio aveva visto ancora più lontano di quanto osasse pensare. Il suo insegnamento più grande fu l’umiltà del dubbio che dovrebbe essere assunto come metodo di vita nei confronti di tutti: religiosi, predicatori, tecnici, politici e scienziati. Ciò si traduce nel comprendere che esiste sempre l’opportunità di imparare, persino da quelle esperienze che non riteniamo importanti, forse perché prive di quella componente «razionale» tanto rassicurante. Ma è proprio da quelle che impariamo di più, perché la vita difficilmente è razionale in termini umani. La vera ricchezza, quindi, sta nell’esperienza consapevole e non nell’ottusa immobilità delle proprie convinzioni.
Simone Rubino
(1) Descartes René, Discorso sul metodo, trad. Garin M., settima edizione, Bari, Laterza 2004.
(2) Borghini Andrea, Karl Popper: politica e società, Franco Angeli, Milano, 2000.
(3) Goldsmith Edward, Il tao dell’ecologia, Padova, Muzzio, 1997