Numero 25
Giacomo Da Lentini
Giacomo Da Lentini
Di lui, come di quasi tutti gli appartenenti alla cosiddetta “Scuola siciliana“, non abbiamo che scarsi riferimenti biografici.
Ma che il “Notaro”, così lo chiama Dante nel Purgatorio in omaggio alla sua carica civile, fosse fin da subito riconosciuto capo indiscusso di quel movimento poetico è cosa certa. Ricoprì delicati incarichi giuridici e diplomatici in quella fantastica“ Magna Curia “federiciana che fu la Corte più singolare, più stimolante, più aperta e curiosa intellettualmente di tutto il Medioevo.
Federico II aveva voluto una Corte che gareggiasse in cultura e capacità d’attrazione con la Curia papale, anche in nome di valori “laici“. Di fronte a un papato che almeno dai tempi di Gregorio VII reclamava la supremazia sul potere civile impersonato dall’imperatore, lo “Stupor mundi” doveva proclamare con una voce più alta possibile la dignità e l’indipendenza del suo magistero. La scelta del volgare italiano invece del latino per esprimersi diventava così “ ideologica “. Giacomo sembra fatto apposta per incarnare questo progetto. Uomo assai colto, era un profondo conoscitore della lirica precedente, dai romanzi cavallereschi ai poeti provenzali, le cui esperienze e risultati rielabora in modo assai personale diventando a sua volta il banco di prova di tutta la lirica italiana successiva, che in lui vede il proprio iniziatore. Amante della sperimentazione, tanto da inventare la forma poetica del “sonetto”* , che insieme al racconto diventerà l’emblema della letteratura italiana, gli si attribuiscono 38 composizioni, divise appunto in canzoni e sonetti. Giacomo e i suoi compagni, tutti o altissimi funzionari statali o appartenti all’aristocrazia, riprendono, come detto, i temi già tipici della poesia cortese. L’amore, cui si tributa un culto quasi da dio pagano, viene cantato nei suoi significati e nelle sue conseguenze, teorizzato, disquisito. Ecco quindi il momento della scintilla, l’ansia e la paura di una risposta, la gioia del “si”, l’avvilimento del “no”, il trauma della separazione, la fisicità dell’amore, quello che ne resta nella memoria. I Siciliani si rivelano spesso più carnali rispetto ai loro successori Stilnovisti, portati all’opposto a una indagine quasi filosofica del fenomeno amoroso; tuttavia caratteristica peculiare di Giacomo è un’acutezza psicologica sconosciuta tra l’altro ai suoi modelli provenzali, abbinata a un uso raffinato delle più svariate tecniche metriche e retoriche. Pochi gli anni della sua produzione poetica, situati grosso modo dal 1233 al 1241: quasi un’allegoria della brevità cui il destino condannò l’esperienza multiculturale e polifonale dei poeti di Federico.
* Sonetto: forma poetica composta da una successione di 2 quartine e 2 terzine, di endecasillabi che rimano secondo diversissimi schemi, di cui il più usuale è: ABAB ABAB CDC DCD. Spesso sono presenti una o più terzine al fondo della composizione, per cui si parla di “ sonetto caudato”.
Il sonetto che presentiamo rappresenta un miracolo di equilibrismo fra ansia di paradiso e fuoco d’amore: il poeta ricusa di entrarvi se non lo potrà fare insieme alla sua donna: ma non perché ella lo stimoli al peccato, chiaramente, ma perché, creatura d’eccelsa bellezza, contemplarla nell’al di là accrescerà la gioia della beatitudine, una beatitudine che non ha la capacità di assorbire un amore terreno...
Io m’aggio posto in core a Dio servire, com’io potesse gire in paradiso, al santo loco ch’aggio audito dire, u’ si mantien sollazzo, gioco e riso. Sanza mia donna non vi voria gire, quella c’ha blonda testa e claro viso, chè sanza lei non poteria gaudere, estando dalla mia donna diviso. Ma no lo dico a tale intendimento, perch’io peccato ci volesse fare; se non veder lo suo bel portamento e lo bel viso e ‘l morbido sguardare: chè lo mi teria in gran consolamento, veggendo la mia donna in ghiora stare. |
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NB: 2° verso: per poter andare in paradiso / gire = andare 4° verso: u’ si mantien: dura in eterno 14° verso: ghiora: gloria |
Pier Luigi Gabriele
Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
chè sanza lei non poteria gaudere,
estando dalla mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento
e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
chè lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.