Numero 21
Lo Spazio nelle arti visive
Lo Spazio nelle arti visive
Continua il nostro immaginario viaggio artistico tra le due culture che maggiormente hanno influenzato la storia dell'arte. Come in ogni cammino, è necessario partire dal concetto basilare, in questo caso lo spazio; la sua comprensione aiuta nella lettura di qualsiasi opera pittorica e scultorea.
Nell'evoluzione delle arti figurative tra Oriente ed Occidente, fondata anche sul complesso intrecciarsi dei rapporti economici e culturali, la visione prospettica e quindi la concezione dello spazio in alcuni casi viene a fondersi, mentre in generale prevale in entrambe le culture la scelta di perpetuare, nonostante le reciproche influenze, la tradizione stilistica dettata dal diverso modo di interpretare la vita e la realtà.
Per l'Occidente, fin dall'epoca classica, le tre arti maggiori (architettura, pittura e scultura) si distaccano dalle cosiddette arti minori (oreficeria, miniatura, intarsio, tessitura) mentre in Oriente il valore estetico di un'opera d'arte non viene legato alla sua utilità materiale ma all'alto grado di perfezione tecnica e formale da essa raggiunta.
Nell'arte occidentale assistiamo al passaggio dalla visione ad un solo piano a quella più complessa della prospettiva.
I singoli elementi di una composizione pittorica, per esempio nel mosaico ravennate, sono forme che si riferiscono ad un solo piano, stagliate su di un fondo oro o neutro e che posseggono soltanto un'unità di luce e colore. "Lo spazio è luce più sottile" afferma il filosofo neoplatonico Proclo e viene considerato come un fondo omogeneo, privo di dimensione e non misurabile.
La conquista di uno spazio "sistematico", che possiede cioè una struttura indipendente dagli oggetti rappresentati in esso, è l'aspetto che caratterizza la pittura romanica, che per prima accenna alla terza dimensione, ossia la profondità. Esempi mirabili di una concezione dello spazio che possiamo definire "moderna" sono Giotto e Duccio di Buoninsegna nei quali la superficie pittorica non è motivata soltanto dalla parete o dalla tavola su cui vengono poste figure ed oggetti, ma si trasforma in un "piano figurativo" funzionale che tuttavia non costituisce ancora una rappresentazione unitaria dello spazio.
Dipinto nel 1328 il Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, è l'affresco rappresentativo del concetto di prospettiva "centrale" che segue, nell'evoluzione del concetto di spazio, alla sovrapposizione dei piani prospettici tipica del mosaico bizantino e dell'arte sacra del primo Medioevo.
La dimensione orizzontale crea un'interessante analogia formale con i rotoli di lettura giapponesi: come nota lo studioso Berenson, tutta l'arte del Trecento senese sembra avere in comune con lo stile orientale l'immaterialità delle figure umane rappresentate. La figura del cavaliere, pur essendo collocata sull'asse visivo principale, appare lontano da ogni concretezza fisica; è il centro unitario dell'opera, ma la sua figura ha peso nella composizione assieme allo spazio, che ne completa la visione e la percezione, permettendo un primo accenno ad un impianto prospettico realizzato attraverso la dimensione maggiore della figura. La raffigurazione del paesaggio è nelle due diagonali che dalle città laterali convergono al centro, mentre il peso visivo è tutto addossato sulla figura del Guidoriccio, in quanto elemento di maggiore importanza formale. Considerando il valore che nella percezione visiva possiede la parte inferiore di un quadro, comprendiamo l'effetto psicologico voluto dall'artista che intende celebrare la figura del condottiero nella sua assoluta e maestosa dimensione eroica.
Che cos'è dunque che crea una maggiore differenza tra la cultura figurativa occidentale e quella orientale?
Senza dubbio sia la diversa considerazione che l'opera artistica possiede sia la fruizione di essa da parte dello spettatore.
Nella pittura occidentale uno spazio verticale "illusivo" sembra essere funzionale all'esigenza di narrare realisticamente la scena pittorica; lo stesso non accade, ad esempio, in Giappone dove sembra essere la dimensione orizzontale quella adatta a coinvolgere il fruitore. I celebri rotoli emakimono, anche quando assumono una direzione verticale (kakemono), non sono mai "quadri" fissi e non vengono mai meno alla loro funzione di "immagini" da leggere e percepire intuitivamente. È questo lo spazio "impressivo" della pittura orientale, che si serve di una sovrapposizione delle figure e degli oggetti collocati nei diversi piani visivi, nel tentativo di "suggerire" lo spazio al fruitore e non di definirlo realisticamente.
La prospettiva occidentale nasce, al contrario, dal tentativo di realizzare una descrizione della natura fisica oggettivamente corretta, motivata dal rinnovato interesse per la geometria e la matematica, intese come codici interpretativi dell'intero universo.
Il principio della piramide visiva di Leon Battista Alberti e il suo trattato della pittura del 1435 fondano scientificamente il campo della percezione visiva, razionalizzando sul piano matematico la costruzione dello spazio.
Come afferma giustamente lo studioso d'arte Erwin Panofsk, questa conclusione sembra essere provvisoria nell'evoluzione del concetto di spazio. Infatti, la graduale elaborazione della prospettiva centrale verrà superata dal concetto di universo infinito e di infinità spaziale che sarà motivo di profonda inquietudine nell'età del manierismo.
La storia della prospettiva in occidente, continua Panofsky, può essere concepita come un trionfo del senso della realtà ed insieme l'espressione della volontà di potenza dell'uomo, che tende ad annullare ogni distanza tra la realtà naturale e quella rappresentata. Da ciò deriva un ampliamento della sfera dell' "io" che porta ad una maggiore importanza della visione soggettiva, aspetto questo che caratterizzerà l'arte dei secoli futuri. È vero anche che la prospettiva albertiana non tiene conto della percezione retinica, ossia della visione curvilinea dello spazio dettata dal nostro occhio, già conosciuta ed applicata nell'architettura greca.
Dunque, essa non è la visione rigorosa e scientifica della realtà ma, al contrario, un tentativo di lettura dello spazio il più possibile vicino alla realtà: è per questo che il Panofsky la definisce una forma "simbolica" illusoria.
Definire irreale la pittura orientale, opponendo ad essa la pretesa scientificità occidentale, è allora un giudizio valido nel confronto delle tecniche di rappresentazione visiva; ma, per quanto riguarda i contenuti, entrambe la culture arrivano a dare un'immagine illusoria dello spazio, quasi che l'efficacia della raffigurazione sia tutta nel coinvolgimento dello spettatore, sia esso stupito o dalla verosimiglianza della scena della pittura occidentale o dallo spazio irreale e sublimato della pittura orientale.
Stefania Santilli