Lo Spazio nelle arti visive

 

Lo Spazio nelle arti visive


Continua il nostro immaginario viaggio artistico tra le due culture  che maggiormente hanno influenzato la storia dell'arte. Come in  ogni cammino, è necessario partire dal concetto basilare, in questo  caso lo spazio; la sua comprensione aiuta nella lettura di qualsiasi  opera pittorica e scultorea.

Nell'evoluzione delle arti figurative tra Oriente ed Occidente, fondata  anche sul complesso intrecciarsi dei rapporti economici e culturali,  la visione prospettica e quindi la concezione dello spazio in  alcuni casi viene a fondersi, mentre in generale prevale in entrambe  le culture la scelta di perpetuare, nonostante le reciproche  influenze, la tradizione stilistica dettata dal diverso modo di interpretare  la vita e la realtà.

Per l'Occidente, fin dall'epoca classica, le tre arti maggiori (architettura,  pittura e scultura) si distaccano dalle cosiddette arti minori  (oreficeria, miniatura, intarsio, tessitura) mentre in Oriente il  valore estetico di un'opera d'arte non viene legato alla sua utilità  materiale ma all'alto grado di perfezione tecnica e formale da  essa raggiunta.

Nell'arte occidentale assistiamo al passaggio dalla visione ad un  solo piano a quella più complessa della prospettiva.

I singoli elementi di una composizione pittorica, per esempio nel  mosaico ravennate, sono forme che si riferiscono ad un solo  piano, stagliate su di un fondo oro o neutro e che posseggono soltanto  un'unità di luce e colore. "Lo spazio è luce più sottile" afferma  il filosofo neoplatonico Proclo e viene considerato come un  fondo omogeneo, privo di dimensione e non misurabile.

La conquista di uno spazio "sistematico", che possiede cioè una  struttura indipendente dagli oggetti rappresentati in esso, è l'aspetto  che caratterizza la pittura romanica, che per prima accenna alla  terza dimensione, ossia la profondità. Esempi mirabili di una concezione  dello spazio che possiamo definire "moderna" sono Giotto  e Duccio di Buoninsegna nei quali la superficie pittorica  non è motivata soltanto dalla parete o dalla tavola su cui  vengono poste figure ed oggetti, ma si trasforma in un  "piano figurativo" funzionale che tuttavia non costituisce  ancora una rappresentazione unitaria dello spazio.

Dipinto nel 1328 il Guidoriccio da Fogliano di Simone  Martini, è l'affresco rappresentativo del concetto di prospettiva  "centrale" che segue, nell'evoluzione del concetto  di spazio, alla sovrapposizione dei piani prospettici  tipica del mosaico bizantino e dell'arte sacra del primo  Medioevo.

La dimensione orizzontale crea un'interessante analogia formale  con i rotoli di lettura giapponesi: come nota lo studioso Berenson,  tutta l'arte del Trecento senese sembra avere in comune con lo  stile orientale l'immaterialità delle figure umane rappresentate. La figura del cavaliere, pur essendo collocata sull'asse visivo principale,  appare lontano da ogni concretezza fisica; è il centro unitario  dell'opera, ma la sua figura ha peso nella composizione assieme  allo spazio, che ne completa la visione e la percezione, permettendo  un primo accenno ad un impianto prospettico realizzato  attraverso la dimensione maggiore della figura. La raffigurazione  del paesaggio è nelle due diagonali che dalle città laterali convergono  al centro, mentre il peso visivo è tutto addossato sulla figura  del Guidoriccio, in quanto elemento di maggiore importanza formale.  Considerando il valore che nella percezione visiva possiede  la parte inferiore di un quadro, comprendiamo l'effetto psicologico  voluto dall'artista che intende celebrare la figura del condottiero  nella sua assoluta e maestosa dimensione eroica.

Che cos'è dunque che crea una maggiore differenza tra la cultura  figurativa occidentale e quella orientale?

Senza dubbio sia la diversa considerazione che l'opera artistica  possiede sia la fruizione di essa da parte dello spettatore.

Nella pittura occidentale uno spazio verticale "illusivo"  sembra essere funzionale all'esigenza di narrare realisticamente  la scena pittorica; lo stesso non accade, ad  esempio, in Giappone dove sembra essere la dimensione  orizzontale quella adatta a coinvolgere il fruitore.  I celebri rotoli emakimono, anche quando assumono  una direzione verticale (kakemono), non sono mai  "quadri" fissi e non vengono mai meno alla loro funzione  di "immagini" da leggere e percepire intuitivamente.  È questo lo spazio "impressivo" della pittura  orientale, che si serve di una sovrapposizione delle figure e degli  oggetti collocati nei diversi piani visivi, nel tentativo di "suggerire"  lo spazio al fruitore e non di definirlo realisticamente.

La prospettiva occidentale nasce, al contrario, dal tentativo di realizzare  una descrizione della natura fisica oggettivamente corretta,  motivata dal rinnovato interesse per la geometria e la matematica,  intese come codici interpretativi dell'intero universo.

Il principio della piramide visiva di Leon Battista Alberti e il  suo trattato della pittura del 1435 fondano scientificamente il  campo della percezione visiva, razionalizzando sul piano matematico la costruzione dello spazio.

Come afferma giustamente lo studioso d'arte Erwin Panofsk, questa  conclusione sembra essere provvisoria nell'evoluzione del concetto  di spazio. Infatti, la graduale elaborazione della prospettiva  centrale verrà superata dal concetto di universo infinito e di  infinità spaziale che sarà motivo di profonda inquietudine nell'età  del manierismo.

La storia della prospettiva in occidente, continua Panofsky, può  essere concepita come un trionfo del senso della realtà ed insieme  l'espressione della volontà di potenza dell'uomo, che tende ad  annullare ogni distanza tra la realtà naturale e quella rappresentata.  Da ciò deriva un ampliamento della sfera dell' "io" che porta ad una  maggiore importanza della visione soggettiva, aspetto questo  che caratterizzerà l'arte dei secoli futuri. È vero anche che la prospettiva  albertiana non tiene conto della percezione retinicaossia della visione curvilinea dello spazio dettata dal nostro  occhio, già conosciuta ed applicata nell'architettura greca.

Dunque, essa non è la visione rigorosa e scientifica della realtà ma,  al contrario, un tentativo di lettura dello spazio il più possibile vicino  alla realtà: è per questo che il Panofsky la definisce una forma  "simbolica" illusoria.

Definire irreale la pittura orientale, opponendo ad essa la pretesa  scientificità occidentale, è allora un giudizio valido nel confronto  delle tecniche di rappresentazione visiva; ma, per quanto riguarda  i contenuti, entrambe la culture arrivano a dare un'immagine illusoria  dello spazio, quasi che l'efficacia della raffigurazione sia tutta  nel coinvolgimento dello spettatore, sia esso stupito o dalla verosimiglianza  della scena della pittura occidentale o dallo spazio irreale  e sublimato della pittura orientale.

 

Stefania Santilli