Storia ed anima di un Popolo

 

Storia ed anima di un Popolo

 

Scrivendo il saggio “Dell’origine e dell’ufficio della letteratura”, redatto per l’inaugurazione della cattedra di eloquenza presso l’università di Pavia, assegnatagli nel 1809 dal governo napoleonico e immediatamente soppressa - solo una delle tante delusioni che costelleranno la sua esistenza fino alla morte in esilio a Londra - Ugo Foscolo poneva fortemente l’accento sull’importanza delle lettere nella vita e nella coscienza di un popolo.

Il nostro grande poeta soldato aveva sotto gli occhi la visione di un’Italia devastata e depredata dalle guerre del periodo bonapartista, spesso con la scusa dell’“egalité, fraternité ecc. ecc.” visione che faceva sinistramente il paio con quanto circa tre secoli prima aveva scritto Machiavelli sull’Italia “corsa e battuta” dagli eserciti franco-spagnoli impegnati a spartirsela.

Naturalmente non a formalismi tipo la bella rima o il virtuosismo tecnico si riferiva il Nostro, mUgo Foscolo, Storia ed anima di un popolo - Nuova Acropolia alla letteratura, alla poesia come momento di spessore epico, espressione al contempo di Bellezza e dell’anima di un popolo, dei suoi valori morali, della sua spiritualità, atto di fondazione della sua coscienza. Tali motivi dovevano sembrargli vitali, dato che per l’Italia, passata la tirannide francese, si sarebbero spalancate di lì a breve le porte ferrate della restaurazione legittimista sorvegliata dall’Austria. Non per nulla, nel mezzo di una dissertazione tanto dotta quanto avvincente, esplodeva con una esortazione rimasta famosa: “Italiani, io vi esorto alle storie”, quasi a sottolineare il filo doppio che unisce le due discipline. E difatti è appurata l’importanza della poesia in ogni stadio della civiltà e a ogni latitudine, come dimostra la poesia omerica, dove il lunghissimo elenco delle navi del II° canto dell’Iliade altro non è se non la volontà degli antichi aedi che composero quel poema di far partecipi tutte le città greche dell’atto di creazione della “societas” ellenica, fra mito e realtà.

D’altra parte è possibile dimenticare l’importanza che la lirica - ora d‘occasione, ora d’amore, ora epica, ora filosofica - riveste in una cultura raffinatissima e distante quanto quella giapponese?

Riguardo a noi, il discorso si fa esaltante da un lato, angoscioso dall’altro. Poiché possiamo tranquillamente affermare che la poesia italiana è uno dei pilastri della poesia occidentale, se non “il Pilastro”, poggiante a sua volta su quella meravigliosa pietra d’angolo che è la poesia latina.

Quasi per una benedizione divina, all’uscita dal medioevo le figure di Dante e Petrarca si stagliano come giganti. Soprattutto l’opera del primo lascia stupefatti, per la potenza e la vastità che la connotano. Tutti quelli che nei secoli si sono cimentati con qualcosa di simile hanno mostrato di non possederne il medesimo afflato lirico, la stessa forza spirituale. Potremmo dire che, a parte le varie tematiche, o il “ marchio di fabbrica “ del sonetto, risalente alla Scuola Siciliana – come forse pure il madrigale - , il tratto distintivo della poesia italiana fosse l’amore. Non solo e non tanto come argomento, ma per come gli Italiani recepissero la poesia nei loro giorni.

Cellini ricorda come fosse d’uso che, ogniqualvolta veniva inaugurato un monumento, fosse una statua o un palazzo, o fosse esposto un nuovo quadro o un affresco, chiunque si sentiva in dovere di commentare l’opera in senso sfavorevole o favorevole, lasciandovi alla base (in carta, non incisi naturalmente) componimenti poetici quali sonetti, strambotti, odi, stanze ecc. Questo era un segno di elevata civiltà, perché chiunque, quale fosse il suo grado sociale, sentiva l’Arte come parte integrante della sua vita. E questo per il lato esaltante.

Quanto all’altro, dobbiamo purtroppo constatare l’assenza quasi generalizzata dalla realtà odierna della poesia, non solo come disciplina, ma anche come concezione. E’ quanto aveva previsto Pasolini, mediocre e sopravvalutato come poeta ma critico lucido e corrosivo. Egli indicava nella fine della società contadina, con tutto il suo retaggio di valori antichi ma positivi inghiottiti dall’industrialismo l’inizio dello snaturamento, della spersonalizzazione dell’anima italiana. I fatti gli stanno dando ragione: violenza, ignoranza, volgarità sono parte integrante del nostro paesaggio come una volta i capolavori del Rinascimento.

Cosa resta da aggiungere?

Un popolo che perde la capacità della poesia, cioè di sentire, perde la sua anima, la sua coscienza, cessa di esistere in quanto tale per trasformarsi in una massa indistinta capace solo di urlare.

Dio non voglia che questo sia il destino che ci aspetta.

Ma cosa possiamo fare noi in concreto per evitarlo?

Innanzitutto riappropriarci delle nostre radici, della nostra cultura, che risale a oltre mille anni prima di Virgilio.

E poi svincolarci da questa frenesia materialistica che ha ridotto le nostre esistenze a una sequenza di attimi ciascuno dei quali deve essere riempito con qualcosa di rigorosamente effimero.

La poesia, maestra di bellezza, saprà indicarci tutt’altre strade.

Pier Luigi Gabriele