La rosa ed il fiore di loto

 

Il nostro viaggio artistico tra le due metà in cui siamo soliti dividere il mondo comincia dalle immagini del fior di loto e della rosa, indicate da Jung come emblemi «omologhi e specchianti» di Oriente e Occidente, definendo con queste parole la diversificazione culturale dei due simboli, in realtà uniti da un'equivalenza di valore.
Contrapporre in modo sistematico la civiltà occidentale a quella orientale può considerarsi un'abitudine storica consolidata e, forse, una semplicistica differenziazione. In realtà, una complessa miriade di culture tra loro diverse vengono, solo per facilità di definizione, chiamate in tal modo. Certamente, se prendiamo in considerazione alcuni aspetti, quali l'organizzazione sociale o la produzione economica ed in linea generale i principi di vita religiosa e politica, appare evidente l'inevitabile contrasto tra i due mondi.

Eppure, il significato ideale del viaggio che vogliamo proporre può essere ricercato nella perenne aspirazione dell'Uomo ad unificare e ricongiungere ciò che la vita, nelle sue condizioni e limitazioni materiali, frantuma e separa.
Crediamo sia naturale comprendere idealmente, per poi necessariamente superare, la diversità dei due complessi apparati dal punto di vista storico, politico e filosofico, forse giungendo, infine, alla suggestiva ipotesi che si possa riuscire «a gettare un ponte di intesa spirituale» tra essi, come ha proposto René Guénon.
L'arte è senza dubbio il campo nel quale può realizzarsi compiutamente l'unione delle due culture in un dialogo estetico-filosofico che permetta di evidenziare idee e valori universalmente validi.
I principi e le finalità che l'esperienza estetica ha indicato nel corso dei secoli sono stati influenzati dalla particolare visione dell'Uomo, della vita e dell'universo che l'Oriente e l'Occidente hanno indicato come validi. Ma in ogni caso ciò che ha diversificato il prodotto artistico sono pur sempre e soltanto materia, soggetti e tecnica, non certo l'aspirazione al bello ed al sublime, ricercata da tutte le culture di ogni tempo e di ogni luogo.
Se già a partire da Erodoto di Alicarnasso nel V secolo a.C. la concezione della supremazia della cultura greca su quella cosiddetta "barbarica" influenza ogni altro tipo di giudizio in materia, una riflessione più attenta ed approfondita, soprattutto dei modelli estetici, invita ad una riconsiderazione delle influenze e delle reciproche contaminazioni che avvennero tra Oriente ed Occidente, rivelando similitudini ed integrazioni iconografiche.
La cultura ellenistica, promossa da Alessandro Magno, darà vita, dal I sec a.C. al VI sec d.C. ed oltre, alla corrente d'arte greco-buddista denominata del "Ghandara", che costituisce il primo tentativo di riunire cultura greca e indiana.
Esempio di questa reale integrazione fu la creazione antropomorfa del Buddha, prima di allora privo di immagini rappresentative.
Depositaria dello schema ellenistico, la cultura ghandarica resterà così fedele ad una rappresentazione non statica dello spazio, come avviene nel caso dello Stupa, una costruzione piena costituita da una base, dotata di movimento rotatorio, su cui si appoggiava un tamburo sormontato da una cupola. La figura scultorea che veniva posta su di essa serviva ad accompagnare la preghiera del fedele, che compiva in tal modo il giro rituale attorno al tamburo.
Una visione del sacro dunque, che, pur riprendendo un modello artistico creato altrove, si esprime in termini estetici storicamente diversi da quelli occidentali. Questa differenza deriva certamente dall'importanza che l'intero corpo assume nella preghiera tradizionale indiana; ma anche un'altra è la motivazione. Ciò che caratterizza maggiormente l'arte della corrente ghandarica, nonostante la comune base ellenica, dalla successiva arte romana è proprio la creazione "originale" ed "autonoma", come la definisce lo storico dell'arte Mario Bussagli, del rito della Pradaksina, ovvero della circumambulazione in senso orario attorno allo Stupa. La manifestazione rituale sembra prendere vita dalla consuetudine iconografica di rappresentare i discepoli disposti in cerchio attorno al Buddha morente.
È questa la conquista di uno spazio rappresentativo che prolunga il tempo della contemplazione estetica, concedendo al fruitore dell'opera una possibilità di concentrazione e di preghiera derivante dai movimenti rotatori e dagli arresti effettuati attorno allo Stupa, i quali pare fossero stabiliti secondo un numero fisso.
Il senso ed il significato di una prospettiva che è stata definita "rotante" va dunque ricercato nelle caratteristiche proprie dell'arte indiana. Le tecniche di rappresentazione "multipla" della realtà, che nei rilievi decorativo-simbolici si arricchiscono di scorci prospettici e di torsioni dei corpi, certamente si differenziano dalla visione rigida e frontale, tipica della cultura figurativa più arcaica. Le infinite suggestioni visive di un'immagine sacra scolpita secondo effetti prospettici così elaborati, restituiscono una dimensione individuale al "sacro", percepito nei movimenti che il fedele compie singolarmente.
È chiara la distanza di una tale concezione dall'idea vitruviana di appoggiare ad un solo piano l'immagine: la visione frontale, che l'arte romana adotterà in seguito e che influenzerà l'arte bizantina e ravennate, sembra essere, al contrario, una rappresentazione dello spazio esauriente e totalizzante, strutturalmente diversa dalla prospettiva rotante indicativa di una diversa contemplazione estetico-spirituale.