Numero 16
Visti per voi: PER FLY: Il Regista della Responsabilità
Riconoscimenti, apprezzamenti e premi dai principali festival europei sono piovuti negli ultimi anni su una delle rivelazioni del cinema danese, il regista Per Fly, autore di una trilogia ambiziosa e ben riuscita sul rapporto tra individuo e senso di responsabilità nella società contemporanea. Allievo di Thomas Vinterberg, uno dei registi del Dogma 951 noto in Italia per “Festen”, Fly costruisce il suo progetto con cura, indagando nella vita e nel pensiero di chiunque possa offrire uno spunto utile al suo scopo, scartando molto e tenendo solo l’essenziale, il necessario per costruire delle storie e soprattutto dei personaggi indimenticabili.
Attraverso Kaj, una volta cuoco di grande talento ed ora alcolizzato senza prospettive, Fly esordisce nel 2000 con “La panchina”, raccontandoci il lato oscuro di una società spesso evidenziata per il suo benessere e per la sua efficienza.
Le ombre dell’alta borghesia, erede sociale dell’antica nobiltà, le affronta tre anni dopo ne “L’eredità”, dove il giovane rampollo Christoffer si trova a dover scegliere tra una vita felice e le responsabilità della ditta di famiglia. “Gli innocenti”, infine, si tuffa nella classe media e nelle contraddizioni dell’ideologia e della politica europee, portando un docente universitario ad un confronto intimo e devastante con il terrorismo, la contestazione e la propria coscienza.
Solitudine, alcolismo, violenza in famiglia: questi sono per il regista danese gli ingredienti del dramma contemporaneo, quali che siano la classe sociale, il livello culturale o economico del personaggio. La vita quotidiana dell’Io, scomposta in ruoli che spesso entrano in conflitto tra loro, manda in pezzi l’identità individuale; il bisogno di coerenza ed il desiderio di felicità dell’uomo si scontrano con i doveri e le attese nei confronti della comunità, senza che le priorità siano più definite.
L’Io, frammentato nei suoi innumerevoli ruoli sociali, paga il pezzo dell’individualità, che deve sempre a se stessa la responsabilità delle scelte di vita e che, spesso, vacilla davanti al naufragare della propria progettualità. Non funzionano più i vecchi legami, i piccoli ricatti, psicologici e non, attraverso i quali per millenni si è gestito il potere nelle famiglie e tra i coniugi: l’individuo si realizza appieno nella soddisfazione di una vita che include, parimenti, lavoro, società, famiglia in senso ampio, vita di coppia. Si tratta di un continuo divenire, di un mutare di equilibri delicato, dove il caso o la volontà possono definitivamente deviare due strade, rompere un legame, far andare alla deriva una moltitudine di esseri.
Così ciascuno, incapace di sopravvivere in questa complessità, cede di volta in volta un ruolo, rinunciando ad essere padre, marito, figlio, lavoratore, per mantenersi in equilibrio. Sotto il peso degli errori, dietro la perdita della passione, subentrano il rimorso, la depressione, la violenza, l’alcolismo, la progressiva rinuncia a ciascuno di questi ruoli. Così, alle volte, abbandonare la propria famiglia può diventare un atto “responsabile”, mentre seguire le proprie ideologie diventa il più alto tradimento verso se stessi.
Fly costruisce con capacità ed esperienza un cerchio che torna quasi a chiudersi, lasciando immaginare a noi le mille interconnessioni possibili fra le tre storie.
Sfrutta le teorie del Dogma 95 valorizzando la luce naturale, prediligendo ambienti reali ai set, utilizzando la camera a mano nei momenti intimi, ma piega alle proprie esigenze la retorica hollywoodiana, soprattutto nell’uso delle musiche e delle panoramiche, che legano velocemente lo spettatore ad un personaggio o ad una situazione.
Come in un gioco di enigmi alcuni attori, come facce comuni, ritornano attraverso i tre film, a volte irriconoscibili, creando quella sensazione di generica affinità che ci fa sentire parte di un’unica società, fino ad affidare il ruolo di protagonista sia de “La panchina” che de “Gli innocenti” al bravissimo Jesper Christensen.
Diventa così impossibile resistere a questo regista danese, alle sue domande impertinenti ed alle riflessioni che ci propone, con la consapevolezza e la maturità che il buon cinema nordeuropeo hanno sempre saputo dimostrare e che lo sforzo di pochi appassionati permette, di tanto in tanto, troppo raramente, di vedere in Italia.