L’ombra e il fantasma (Visto per Voi)

Nel quinto anniversario dell’attentato dell’11 Settembre, nuove riflessioni dal mondo intellettuale vengono finalmente proposte al grande pubblico: non si tratta di analisi storiche o politiche dei fatti, ma di teorie sulla qualità della comunicazione che ha investito l’evento più documentato della storia dell’umanità.
Si fa sempre più strada la confusione tra presenza ed attendibilità storica: “Io c’ero” non vuol dire fare la storia, ma osservarla da spettatore non coinvolto. Le dimensioni dell’11 Settembre come evento mediatico globale sono sintomatiche di questo fenomeno di deresponsabilizzazione e voyeurismo, che si sommano nell’approccio dell’individuo alla realtà: l’incapacità del cinema di metabolizzare e riproporre l’argomento offre interessanti spunti.


11 Settembre 2001, le televisioni di tutto il mondo trasmettono il crollo del World Trade Center, l’edificio che simbolicamente incarna un sistema, e le stesse drammatiche immagini trasmesse da ogni rete televisiva, fanno piombare l’intero globo nel medesimo stato di sospensione, tra dubbio, terrore ed incredulità. La CNN, dal suo punto di vista privilegiato, impone al mondo l’immagine del crollo delle Torri Gemelle: un’icona che ha fatto storia, che simboleggia il momento non solo per l’assolutezza della sua diffusione mediatica, ma anche per la sua perfezione estetica.
L’impostazione dell’inquadratura, mai disturbata da un attraversamento, la simmetria delle due torri, l’essenzialità della loro forma, i tempi dell’attesa... un maestro del cinema non avrebbe potuto produrre una sequenza più incisiva, tanto che nessuno dei filmati successivamente prodotti è riuscito a scalfire la forza e la presenza, nella memoria, di quell’immagine.
L’effetto distruttivo dell’attentato è stato duplice: oltre ad aver colpito un simbolo di quello che l’Occidente rappresenta, ha scatenato un enorme circo mediatico; la caduta è stata filmata in ogni sua fase dalla telecamera che, non riuscendo ad emanciparsi dalla sua fama di venditrice di illusioni, l’ha trascinata nell’irreale. Sostanzialmente è stato anche un attacco contro la credibilità dell’informazione.
A questo si somma la costante contestazione della veridicità: proliferano prove sia a favore sia contro le responsabilità attribuite, così come per ogni altro fatto successivo. La diffusione di fonti d’informazione e di sistemi di comunicazione più o meno controllati, soprattutto grazie ad Internet, ha prodotto una sovraesposizione del fruitore che si è così ridotto a spettatore passivo, spesso disinteressato, certamente qualunquista. Una ed una sola resta l’immagine percepita come reale (più per la reiterazione contestualizzata che per la consapevolezza della sua percezione o la veridicità del suo contenuto), mentre il resto della documentazione si confronta con la confusione e l’indifferenza. Dov’è che i media hanno fallito la loro missione comunicativa, realizzando solo quella commerciale?
Ai pochi tentativi di rappresentare cinematograficamente l’evento, quasi tutti sintomatici della difficoltà di riprodurre un avvenimento già così decisamente caratterizzato, si contrappongono i ben più numerosi prodotti televisivi (servizi, dirette, filmati amatoriali, ricostruzioni, inchieste, documentari), spesso rispondenti più ad etiche commerciali che giornalistiche. In televisione si avvicendano immagini amatoriali e ricostruzioni; nel tradizionale stile americano, una forte connotazione narrativa ed una straziante rappresentazione del dramma e della sofferenza caratterizzano i documentari, assottigliando pericolosamente i confini tra fiction ed informazione.
In Italia questi codici linguistici (dalla grana dell’immagine alla retorica del ralenti e della dissolvenza) legano i documentari trasmessi più al telefilm, del quale abbiamo grande esperienza, che all’informazione, che nel nostro Paese ha ancora forme rigorose e poco spettacolari. La percezione resta così poco credibile e, quindi, poco degna della giusta attenzione.
Il rapporto del cinema con lo spettatore, d’altra parte, si basa su un sottile gioco tra verità e finzione, che ora calca sulla verosimiglianza con la realtà, ora mira a romperla per cercare nuovi equilibri; una fitta rete di simboli e di significa ti tiene insieme il tutto. Come nella realtà di tutti giorni, ogni azione e pensiero va riferito ad una rete di significati che tiene unito il nostro orizzonte concettuale, e dà un senso unitario al nostro agire ed al nostro pensare. La decodificazione dei simboli nella vita reale e nella cinematografia ha però dei presupposti
totalmente diversi: difatti, mentre la nostra cultura, basata sull’empirismo, considera quello che viene esperito direttamente come vero, non fa lo stesso con il cinema, che con alcune sfumature viene classificato come il regno della fantasia verosimile.
Quando il cinema incontra la storia le dona tridimensionalità, ma per farlo ha bisogno che l’evento sia stato assimilato, predigerito dal suo pubblico. La capacità di fruire di un film, diversamente da altri media “video”, necessita di una visione critica che può realizzarsi solo dopo che l’evento è stato analizzato ed interiorizzato: il gioco dei rimandi tra i simboli, i significati e lo spettatore non può venire interrotto, pena la distruzione totale del mezzo comunicativo stesso.
L’impatto mediatico dell’11 Settembre non ha portato ad un’assimilazione dei vari elementi, con conseguente mancanza di una vera memoria collettiva: ci si ferma alla condivisione di icone visive, spezzoni di filmati o foto. La memoria collettiva è un processo dinamico di rielaborazione al tempo stesso personale e collettiva in cui tempo, memoria individuale ed identità concorrono a creare il ricordo del passato; questo va a cozzare con la riproduzione continua e “statica” delle immagini, senza aver avuto il tempo di interiorizzare, di costruire il nostro senso dell’evento.
Il cinema ha scelto di affrontare il tema quasi esclusivamente su un registro alto, avvantaggiandosi di una riflessione intellettuale che, in maniera efficiente, individua nell’assenza la giusta forma di rappresentazione e nella sottrazione l’approccio più significativo. In 11’ 09’’ 01 Sean Penn ambienta a New York il proprio episodio, immortalando il risveglio dell’uomo qualunque in un buio appartamento. Il crollo viene rappresentato dalla luce che “entra in scena” dall’alto verso il basso: le torri, nel realizzarsi della loro assenza, si rivelano, sorprendentemente. Analogamente, nella 25ª ora di Spike Lee, il vuoto di Ground Zero simboleggia efficacemente la sensazione di una nuova epoca. Significativa è stata, soprattutto, la “sottrazione” delle due
torri dagli sfondi dei film ancora in produzione, dalle cartoline e dalle viste di Manhattan, nella commerciale fretta di allinearsi al futuro. Più della reiterata “diretta CNN”, più del provocatorio ribaltamento dell’immagine proposto da Ghezzi in Blob pochi giorni dopo, la consapevolezza coglie l’individuo inaspettatamente in forma di disagio e di sconcerto, davanti ad un’immagine incongrua e squilibrata della skyline newyorkese attuale.

Quale immagine rappresenterà l’attacco dell’11 Settembre nella storia dell’Uomo? Quale sopravviverà alla selezione naturale operata dalla memoria collettiva? Il tentativo della CNN di cancellare le immagini concorrenti viene contrastato dagli altri media, che diffondono e mantengono la varietà delle testimonianze, mentre il cinema torna a cercare nel crollo le proprie storie con Oliver Stone, che con World Trade Center cerca di recuperare la memoria del momento storico, sottraendolo al giudizio sulle conseguenze politiche e su chi le ha volute.
Il senso dell’assenza permea totalmente questo evento. Il crollo delle torri prefigura una «scomparsa, al tempo stesso di questa forma di architettura e del sistema che essa incarna.»1 Lo si vede nel vuoto di Ground Zero, o nelle foto ossessivamente riproposte degli scomparsi, come anche nelle molte bare rimaste vuote. L’assenza però è più forte ad un livello ancora più alto: manca fisicamente il “responsabile”, che ha affidato le sue pubbliche relazioni ad altri filmati. L’assenza di un corpo che catalizzi il male spaventa molto di più della presenza del capro da sacrificare che, concentrando su di sé il carico delle colpe, ce ne libera e non ci costringe ad una reazione.
Rappresenta quindi il male assoluto, non ci consente di assimilarlo come una qualunque delle possibilità della vita, come infiniti altri eventi luttuosi che si sono susseguiti. È nato quindi una sorta di fantasma che si aggira per i cieli dell’America sotto forma di Boeing, inafferrabile ed intangibile, e quindi assoluto.

1 Jean Baudrillard, Edgard Morin: “La violenza del mondo - la situazione dopo l’11 settembre”, Ibis, 2004