Il fumetto al cinema (seconda parte)

Immagini e parole: Pagine di celluloide

Nati entrambi alle soglie del XX secolo, cinema e fumetto accompagnano i profondi cambiamenti della società come forme d’intrattenimento popolari che faticano a veder riconosciute le loro potenzialità artistiche. Sempre in bilico tra “divertimento usa e getta” e sperimentazione, vincolate più di altre forme d’espressione alle dinamiche economiche ed alla necessità di raggiungere più pubblico possibile, sia il cinema sia il fumetto rileggono la narrazione in chiave di “immagini e parole”, dominando l’una il tempo, l’altra lo spazio.


Se il cinema sviluppa la propria narrativa attraverso la costruzione, per lo più esplicita, dell’azione, il fumetto si limita a suggerirla attraverso frammenti della stessa, lasciando alla fantasia del lettore il ruolo di riempire i closure, creando l’interazione con il fumetto e l’affezione che lo porta fino all’ultima pagina.
Nel fumetto spetta al lettore dare un ritmo alla sequenza di scene, azioni presentategli in successione, come tanti fotogrammi; il movimento può solo essere suggerito ed il tempo della lettura è condizionato per lo più dal testo presente nei balloon o nelle didascalie.
Il lavoro del narratore si sviluppa in modo soprattutto spaziale, nella scelta delle inquadrature e della scansione delle azioni, ma anche nella gestione della pagina: uno spazio bianco e vuoto da riempire, in cui le architetture delle vignette fanno i conti con i bordi invalicabili della carta. Solitamente, infatti, le sequenze cominciano in cima alla pagina sinistra, nella prima vignetta, mentre l’ultima della pagina destra prelude, con frequente uso della suspense, a ciò che si verificherà nella pagina successiva, ancora da girare e da scoprire.
Nella realizzazione di un film, invece, gran parte del lavoro di regia è rivolta alla gestione del tempo: la durata delle sequenze, la velocità delle azioni, anche il protrarsi di un silenzio o un momento di stasi sono strumenti funzionali al trasmettere allo spettatore la giusta sensazione. Modifiche ai tempi di scorrimento della pellicola, inoltre, permettono ulteriori variazioni rispetto al tempo reale dell’azione. L’inarrestabile incalzare degli eventi pone lo spettatore in un ruolo apparentemente passivo, che gli permette di vivere un’esperienza emotivamente più intensa e quindi, quando ben strutturata, più duratura nel tempo.
Nonostante le evidenti affinità, la gestione comunicativa di questi due elementi rende particolarmente difficili i passaggi di testi da un medium all’altro e porta artisti e produttori a sottovalutare queste difficoltà.
Ne ha fatto le spese lo stesso Frank Miller, autore geniale ed innovativo, trasformatore dei comics americani, cimentatosi senza successo con la sceneggiatura cinematografica in Robocop 2 e 3. Memore dell’esperienza, per realizzare il proprio riscatto, Miller ha scelto di lavorare fianco a fianco con Robert Rodriguez, regista giovane, estroso, dalla personalità poliedrica, capace di sfornare film d’azione frenetici con protagonisti degni di un melodramma (“C’era una volta in Messico”), ma anche di trasformare una coppia di ragazzini frustrati in un team di spie dai colori sgargianti, creando un action per bambini eccitante e corretto (“Spy Kids”). Fan e complice di Quentin Tarantino, Rodriguez non è nuovo a lavori condotti a quattro mani, dove riesce ad esprimersi come regista, sceneggiatore e musicista, nel rispetto dell’arte del partner.
Il progetto, questa volta, era quanto mai ambizioso: trasporre in film l’opera più matura e compiuta di Miller, quel “Sin City” che aveva fatto gridare al miracolo gli appassionati di fumetti di tutto il mondo, un insieme di storie metropolitane dure e spietate, dalle tinte forti, ma soprattutto caratterizzate da uno stile grafico assolutamente estremo. Il bianco ed il nero, pieni, densi, come iceberg che si scontrano: grandi masse incontaminate che nell’impatto schizzano frammenti in tutte le direzioni. Non ci sono forme rassicuranti: la città del peccato è minacciosa in ogni suo spigolo così come i suoi abitanti, relitti allo sbando dal passato burrascoso e dal futuro incerto, che portano sul viso e sul corpo i segni delle avventure trascorse. Le uniche curve sono quelle dei corpi mozzafiato delle prostitute, capaci di una dolcezza incandescente, ma che non esitano ad impugnare le armi per difendere il loro territorio e dimostrarsi più spietate dei killer professionisti.
Per portare al limite il proprio stile grafico, Miller crea uno scenario altrettanto estremo: una città che è la quintessenza di ogni ambientazione noir e pulp. A Sin City tutto è icona: dalla ballerina di bar al politico corrotto, dall’alto prelato con la coscienza sporca al poliziotto che taglieggia i piccoli criminali. Gli eroi sono sporchi e maledetti, i cattivi lo sono ancora di più.
Sia per l’esasperata iconografia dei personaggi e delle storie, sia per l’uso estremo della grafica, “Sin City” è un fumetto “che più fumetto non si può”. Attuarne una trasposizione cinematografica era certamente un sogno di molti, ma fin troppo rischioso; dal connubio dei due autori, geniali e parimenti esperti ciascuno del proprio modo di narrare, è scaturito un film assolutamente originale ed interessante nella realizzazione e nella messa in scena.
Indubbiamente anomalo, “Sin City” riesce sulla pellicola ad essere estremo quanto l’originale su carta. Il bianco e nero della pagina prende forma quasi inalterato sullo schermo: i volti dei personaggi sono deformi ed esasperati, le luci non riescono ad illuminare una città che sembra intinta nel petrolio, il sangue è così bianco da sembrare fluorescente. Anche l’espediente grafico con cui Miller si era divertito a sottolineare un personaggio o un dettaglio con una macchia sgargiante di colore, viene riprodotto fedelmente sullo schermo, grazie alle tecnologie digitali.
I due registi funzionano come una coppia affiatata, in cui non si riesce chiaramente a distinguere il contributo di ciascuno. Rodriguez, da un lato, cede il passo a Miller, rinunciando in parte al proprio stile per rappresentare l’immaginario di un altro autore dalla personalità spiccata. D’altro canto non si può non pensare che l’efficacia del ritmo narrativo e della messa in scena siano in larga parte merito suo.
Il risultato è un film sperimentale, capace di superare i titoli ispirati ai fumetti che da qualche anno affollano le sale: non si tratta più di prendere in prestito qualche personaggio o frammento di trama e costruire una nuova storia pensata per il cinema. Qui è proprio il fumetto, con le sue peculiarità visive, che prende vita e passa dalla staticità della pagina stampata al dinamismo del grande schermo.
Sam Raimi nel suo “Spiderman” era riuscito a farlo per qualche sequenza. Le evoluzioni del protagonista appeso alle sue ragnatele non erano un riadattamento, ma proprio quelle che i lettori di fumetti conoscevano ed amavano. La sensazione più forte nel vedere quelle immagini non era la meraviglia per spettacolari acrobazie o innovativi effetti speciali, ma lo stupore nel riconoscere pose e movimenti, visti e rivisti tante volte sulle pagine del proprio fumetto preferito.
Miller e Rodriguez, insieme, ci hanno saputo dare quel senso di “deja-vu” per la durata di tutto un film, insieme allo stupore di una sorpresa insperata e alla strana sensazione di vedere ora, per la prima volta, quelle storie così stilizzate, iconografiche da sembrare il ricordo di un sogno.