Nell’empatia, il nostro “radar sociale”

Com’è complesso capire gli altri! E quanto difficile è riuscire a entrare in relazione con le tante persone che fanno parte della nostra quotidianità, spesso del tutto indesiderate, e con le quali occorre mantenere quell’essenziale “rapporto di buona cortesia”!
Eppure, a certi rapporti non si può proprio rinunciare.
Di che “legame” sono costituiti i rapporti e perché mai l’amorevole accordo spesso, nella maggior parte delle relazioni, sfuma?
Beh, se non dimentichiamo che in ciascuno di noi collimano una varietà indefinibile di emozioni, sentimenti, sensazioni e intuizioni, non sarà difficile comprendere come nello stare con l’altro si mettano in gioco tante di quelle poliedricità personali da condizionare continuamente il nostro modo di aprirci all’altro.
Un temperamento di fondo, un modo di leggere la vita, le emozioni che si vivono e che colorano la vita secondo per secondo fanno modificare le nostre “facciate sociali” con la velocità di un siluro. La relazione sociale è spesso risultato di questo continuo feedback, a volte costruttivo, altre volte nefasto all’inverosimile.
E allora? Cosa rientra nelle nostre possibilità quando una relazione esterna fa a pugni con tutto quello che rappresenta il nostro mondo interiore?
Stando anche a quanto riferiscono le ultime indagini sull’argomento, sembra proprio che il protagonismo di ciascuno di noi abbia più preminenza di quanto sembra.
Ma andiamo per gradi.
Il mondo delle relazioni umane è tra i più complessi ma anche tra i più affascinanti. Ci siamo mai soffermati a pensare a quanto ci colpisca, nel bene come nel male, il messaggio che giunge dall’altro? Spesso non sono le sole parole o le dichiarazioni di chi abbiamo di fronte che fanno scoppiare la prima pioggia di sensazioni negative: «Non so perché, ma non mi piace»... chissà quante volte lo avremo pensato riferendoci alle nuove conoscenze!
Probabilmente un perché a certe sensazioni ci sta, eccome; basti pensare che appena una piccolissima parte delle nostre idee si esprime con l’uso della parola; per tutto il resto entra in funzione un piano comunicativo ben più sottile ma al contempo più concreto; un piano fatto di gesti, di mimica, di posture che tradiscono sentimenti, idee preconcette, emozioni, pregiudizi che alcune volte non si confidano neanche a sé stessi.
Ebbene, l’altro trasferisce a noi anche questo bagaglio velato di sensazioni e, quando le parole non sono in sintonia con quanto si comunica con il tono di voce, i gesti o altri canali comunicativi… il quadro è presto fatto.
Non è spesso quel che si dice ma il come lo si fa a determinare la sensazione finale.
Sapere leggere questi segnali potrebbe essere un importante strumento per modificare il nostro modo di relazionarci con tutti coloro che ci circondano.
«Cosa vogliono dirmi e, ancor di più, cosa dico “io” di me stesso?»
Se è vero che le parole rendono poco, dovemmo proprio imparare a leggere atteggiamenti, espressioni facciali e tonalità di voce. Questa essenziale capacità di lettura potrebbe rientrare all’interno di quello che in tanti hanno chiamato “empatia”.
Lo fecero per primi i Greci quando usarono la parola “empatheia” - sentire dentro - con l’accezione del riuscire a percepire da vicino l’esperienza vissuta dall’altro. Di certo, la capacità di leggere i sentimenti altrui attraverso “indizi” non verbali potrebbe portare non pochi vantaggi come, ad esempio, una maggiore adeguatezza emotiva, quella che manca quando l’altro appare insopportabile…
L’empatia elimina queste sensazioni preconcette.
La “capacità empatica”, che consente di intuire come si sente un altro essere umano, si può apprendere e questo potrebbe far tirare un sospiro di sollievo a quanti ritengono di non averne a sufficienza.
Secondo gli studiosi di psicologia dello sviluppo, il “germe” dell’empatia si può rintracciare nella primissima infanzia: inizia con il pianto di un bambino che segue quello di un altro. All’inizio, pare che i bambini imitino la sofferenza altrui, forse per comprendere meglio quello che l’altro prova (è chiamato “mimetismo motorio”).
A ben pensare capita anche a noi adulti: vedere l’altro arrabbiato ci porta a corrucciare le ciglia, sentire un pianto irrigidisce i muscoli del viso.
Il sentire l’altro è preceduto, dunque, dall’osservazione. Osservare l’altro e, perché no, anche se stessi, rappresenterebbe il primo significativo passo in direzione di una maggiore conoscenza di quanto si prova e si sente dentro: e come si fa ad avere giudizi avventati quando gli abiti dell’altro ci sono... passati attraverso la pelle?
Capire l’emozione nascosta di colui che ci guarda ci potrebbe veramente spingere a dare opportunità in più e a considerare diversamente anche chi è stato etichettato forse troppo sbrigativamente. Chissà che questo, da solo, non cambi anche la nostra maniera di guardare il mondo…