I Templi dell’Isola della Salute - 2a parte

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Così veniva anticamente chiamata l’Isola Tiberina, in cui sorgeva il Tempio dedicato ad Esculapio.
Come ci raccontano le cronache dell’epoca, intorno al 293-291 a.C. a Roma imperversava una pestilenza per la quale si era rivelato infruttuoso qualunque tentativo messo in essere. Il problema venne affrontato alla stregua di una crisi eccezionale e, pertanto, fu richiesto l’intervento dei decemviri, che, consultati i Libri Sibillini, informarono il Senato che la peste sarebbe cessata con l’introduzione del culto di Esculapio. Il dio sarebbe dovuto essere trasportato dalla sua sede, in Epidauro (nella regione greca dell’Argolide), a Roma.

Così il Senato decise di mandare una delegazione nel tempio a lui dedicato dove viveva il serpente sacro, simbolo del potere guaritore. Uscendo dalle viscere della terra, il serpente raffigura tutte le proprietà - benefiche e non - delle piante medicinali. I dieci messi romani giunsero ad Epidauro e, quando chiesero di portare con loro il serpente sacro spiegandone le ragioni, questo uscì inaspettatamente dal tempio nel quale viveva quasi sempre nascosto; si avviò verso la trireme romana e si accovacciò sul ponte avvolto in tre spire.
Vi rimase tranquillo per tutta la navigazione sino a quando la nave, attraversato il Tirreno, cominciò a risalire il Tevere per approdare a Roma. Non appena giunto in prossimità dell’Isola Tiberina, cominciò ad agitarsi e, con un balzo deciso, saltò dal ponte sparendo. Poco tempo dopo, la pestilenza, come d’incanto, scomparve dalla città.
I Romani capirono che quella sarebbe stata la nuova dimora di Esculapio e, dove scomparve il serpente, costruirono il tempio a lui dedicato.
All’isola, poi, fu data, con la costruzione di un’apposita muraglia, la forma di una nave in ricordo di quella che aveva trasportato il dio, con tanto di obelisco a simulare l’albero maestro.
Ma chi era Esculapio?
Figlio di Apollo e Coronide, una mortale, era destinato a perire tra le fiamme, ma fu salvato ed affidato al centauro Chirone che lo addestrò alla medicina. Divenne a tal punto bravo nelle arti mediche che Ade (il dio dell’Oltretomba) iniziò a preoccuparsi, in quanto nessuno più moriva. La preoccupazione si trasformò poi in terrore, per cui decise di ucciderlo e di trasformarlo in costellazione.

Altro tempio presente era quello dedicato a Fauno e Fauna, lui antichissimo re del Lazio, dal cui connubio con Fauna sarebbero sorti i Fauni, esseri silvestri e dall’aspetto caprino.
Quando emettevano i loro vaticini venivano chiamati Fatuo e Fatua.

Sull’isola esisteva anche il tempio dedicato alla dea Bona, altro aspetto di Fauna, che le donne romane veneravano come protettrice di castità e pastorizia.
Nelle feste in suo onore gli uomini erano esclusi. Queste avvenivano nei primi giorni di dicembre, di notte, nella casa di un magistrato. La padrona di casa fungeva da sacerdotessa; si sacrificava una scrofa in una sala ornata di tralci di vite, in cui non doveva comparire il mirto (perché una volta con esso era stata fustigata dal marito Fauno per aver bevuto troppo).
La dea Bona fu poi venerata come dea salutare; vicino al suo tempio sorgeva una piccola infermeria gestita da sacerdotesse, sostituite poi da monache in epoca cristiana.
Anticamente i ricoveri non erano solo per chi fosse malato, ma anche per chi volesse accedere al Tempio di Esculapio o non sapesse dove andare.
Prima di essere sottoposto al trattamento vero e proprio, il paziente sottostava ad un periodo preparatorio, dedicato all’igiene del corpo e a una dieta particolare. Una volta “purificato”, era ammesso al sacro recinto. A questo punto gli era concesso di dormire nell’àbaton, sotto i portici del tempio, dove avveniva l’incubatio, il sogno profetico.
Nei secoli continuò la tradizione e l’Isola divenne famosa in tutta Europa per i suoi ospedali, dove venivano applicate norme igieniche impensabili fino a fine ‘800, come cambi di lenzuola continui, mentre in genere avveniva solo tre volte l’anno; un letto per paziente e con separé mentre in alcuni casi ne coricavano fino ad otto per letto; l’invenzione delle cosiddette carriole, le antiche portantine.

L’ospedale Fatebenefratelli deve il suo nome a un santo di origine portoghese, S. Giovanni di Dio, al secolo Juan Ciudad. Nato nel 1495, per quarant’anni non era stato gran che di buono: aveva combattuto nell’esercito spagnolo, era fuggito dopo essere stato condannato a morte per furto e fatto più o meno onestamente i più svariati mestieri. D’improvviso, folgorato dalle parole di Giovanni d’Avila, aveva deciso di dedicarsi al bene del prossimo, ma con tale foga, che venne giudicato pazzo e rinchiuso per un paio d’anni nel manicomio di Granada.
Dimesso, fece tesoro dell’esperienza vissuta, fondando un ospedale in cui i malati fossero ricoverati ed assistiti in modo più umano, e dove la malattia mentale non venisse curata con la tortura.
Juan predicò che l’assistenza ai malati avvenisse ad opera di persone che avevano sofferto sulla loro pelle l’esperienza della malattia e che conoscessero, quindi, ciò di cui il malato abbisogna in primo luogo: l’amore e la comprensione.
Con due giovani collaboratori fondò nel 1539 la congregazione dei Fratelli Ospedalieri, che, 36 anni dopo la sua morte, venne riconosciuta come Fatebenefratelli, dalla frase abituale con cui il santo, con una tinozza in spalla e due ciotole legate con uno spago a tracolla, era solito invitare i passanti a fare la carità.

Ricercando e studiando gli eventi e le leggende dell’isola Tiberina non può non saltare agli occhi il filo conduttore di questa storia: cure e guarigioni, prima spirituali e poi fisiche, strettamente legate all’acqua, da sempre simbolo di purificazione interna ed esterna, danno vita ad un concetto di medicina intrisa di sacralità che si è mantenuta ancor oggi.