Van Gogh e il Cafè de nuit

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Il misticismo ardente del giovane Van Gogh nacque dalla volontà di contrapporsi all’ideologia protestante ormai ancorata a forme teologiche vuote che sembravano giustificare 1’aridità formale a cui andava adattandosi la borghesia olandese.
L’intensa spiritualità a cui il pittore arrivò, dopo una profonda crisi esistenziale, fece emergere dal suo animo un sentimento del Sacro che, da un lato, lo spinse a trasfigurare continuamente l’esistenza in una sintesi di profondi valori, quasi bramando di toccare il fondo delle cose per trasformarle in verità, bellezza e luce; dall’altro, lo fece ricadere nuovamente nella crisi del suo tempo, nelle miserie umane di cui egli non esitò a farsi portavoce, in particolar modo nelle sue prime opere.


Il realismo popolare a cui egli arrivò in campo artistico fu, dunque, il punto di arrivo della rivolta contro le ipocrisie morali, a cui egli preferì un razionalismo critico.
Nel periodo di Neunen, dopo la crisi mistica del Bourinage, Van Gogh scrisse al fratello Theo lunghe lettere sulle leggi del colore: le fervide discussioni con Signac e Gaugain sulla scienza del divisionismo, fondata da Seurat, lo spingeranno ad elaborare una propria teoria sullo stesso concetto, inteso come un valore assoluto che vive e vale secondo propri princìpi.
La luce che in Rembrandt era ancora chiaroscurale, si sprigionò in Van Gogh attraverso l’esaltazione di colori complementari. Nello stesso tempo, si riconosce alle opere di entrambi gli artisti un significato filosofico, una mistica “panteistica” dove il colore, lungi dall’essere considerato secondario rispetto alla forma, penetra la realtà, attribuendole valenze simboliche.
Van Gogh abbandonò definitivamente le sfumature impressioniste usando in modo ardito i colori più violenti: «Il pittore dell’avvenire, scriveva al fratello, è un colorista come non ce ne sono mai stati». Egli riteneva che ogni singolo colore convenisse in modo particolare ad una determinata espressione ed egli lo usò come un linguaggio.
La sua teoria del colore non era fondata razionalmente ma empiricamente, ed il risultato fu quello di superare l’apparenza arrivando all’essenza profonda degli oggetti e delle persone rappresentate.
Quando egli disse “del rosso e del verde che sono in grado di esprimere le terribili passioni umane” si riferì appunto alla prospettiva di descrivere lo spazio fisico e spirituale della realtà con una specie di senso di vertigine dato innanzitutto dal colore e, contemporaneamente, dalle linee prospettiche accentuate, aventi un effetto di prolungamento e di durata spaziale e temporale.

Il soggetto del quadro in analisi è l’interno di un locale in Place Lamartine ad Arles (nel sud della Francia), che esiste tuttora e si chiama Cafè de l’Alcazar. Qui Van Gogh trovò rifugio nel primo periodo del suo soggiorno in Provenza, prima del suo stabilirsi nella “casa gialla” che egli sognava di far diventare un cenacolo di artisti e che, invece, fu teatro della difficile e controversa convivenza con Gaugain. “È quello che qui chiamano un ‘Caffè di notte’... I malfattori notturni possono qui rifugiarsi quando non hanno di che pagarsi un alloggio o sono troppo ubriachi per esservi ammessi.”
Dalle parole scritte al fratello Theo, Van Gogh descrive l’interno del locale, con i suoi vagabondi che dormono tra i tavoli, diventa una sorta di antro infernale, dove l’acceso impianto coloristico è in funzione non più della realtà ma di quello che essa evoca agli occhi di chi la osserva. La pittura di Van Gogh è, dunque, quella del pensiero al di là dell’immagine reale.
Le linee prospettiche sono impostate secondo la precisa volontà dell’autore di porre in alto il punto di vista reale, in modo da privilegiare il pavimento, che con il suo tono giallastro riflette la luce intensa del locale.
Viene a sottolinearsi, quindi, la profondità di un ambiente di cui Van Gogh sembra possedere una intensa visione generale, che contemporaneamente gli permette di descriverne le minuzie.
Le figure sono poste ai lati destro e sinistro della composizione, fatta eccezione che per l’unica in piedi, e pur sempre isolata, dell’uomo che osserva, quasi come un testimone reale, l’artista mentre dipinge.
L’importanza della parte centrale del dipinto in rapporto alle persone è volutamente maggiore. II valore dato alla parte vuota del locale sottolinea volutamente l’abbandono degli ubriachi alla più completa solitudine. Posti fisicamente ai margini del locale essi ricoprono lo stesso ruolo di emarginati nella vita sociale e l’artista non esita, visto il suo impegno e la sua sensibilità a riguardo, a diventarne quasi un silenzioso osservatore e narratore.
L’atmosfera di grande abbandono generale delle persone presenti sulla scena suggerisce il silenzio della solitudine e dell’emarginazione, che è poi la stessa che viveva l’artista quotidianamente. Quasi una fotografia spietata di una condizione umana trasandata e irrequieta che non può trovare mai pace: Van Gogh vuole mostrare come possa degenerare l’essere umano in un simile ambiente. Tuttavia la sua non è una visione impietosa e, anche se nella sua capacità descrittiva può essere paragonato ad un fotografo, egli non lo è nelle finalità narrative.
Se avesse voluto realmente rappresentare come un verista “le terribili passioni umane” gli spunti avrebbero potuto essere altri: una rissa, un maggiore approfondimento di singoli personaggi ed in generale un maggiore movimento. La sua realtà è, al contrario, popolata di personaggi che non comunicano tra loro, immersi nell’oblio; l’unica eccezione è la coppia sullo sfondo che, tuttavia, per la sua marginale partecipazione alla scena è quasi un dettaglio minore.
L’inquietante presenza di un orologio, infine, testimone reale dell’attimo fermato, è un particolare importante perché giustifica la dimensione temporale dell’opera e, nello stesso tempo, ne sottolinea la dimensione emotiva.